venerdì 13 maggio 2016

Giraud Gaël e la transizione ecologica

Giraud Gaël, gesuita ed economista francese, all'università Cattolica di Piacenza, ha espresso in maniera chiara la sua convinzione dell'urgenza di un cambiamento di fonti energetiche.
Si tratta di una opzione senza alternative che però vede ancora delle resistenze...
Di seguito l'introduzione al suo saggio «Transizione ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia» (Emi)


A otto anni dallo scoppio della più grave crisi finanziaria che l’umanità abbia conosciuto, l’economia mondiale non ha ritrovato una situazione di equilibrio. La Cina ha capito che l’Occidente non può più consumare a credito i beni industriali che essa produce, ma stenta a trovare mercati sostitutivi. Il Brasile potrebbe crollare. Il Sud Europa è preso in una trappola deflazionistica da cui nessuno sa, al momento attuale, come potrebbe uscire, e che minaccia di condannarlo a perdere, come il Giappone, vari decenni. Le misure di austerità di bilancio imposte da Bruxelles e Berlino con la complicità di Parigi producono l’effetto purtroppo atteso: aggravano la depressione del Sud provocando l’aumento del rapporto debito pubblico/Pil. Misure d’austerità tanto più controproducenti in quanto distolgono l’attenzione dal vero problema europeo: l’eccesso di indebitamento privato e la deregolamentazione finanziaria. 

Privatizzazione antidemocratica  
Come non avanzare l’ipotesi che la pretesa crisi del debito pubblico non sia essenzialmente che un pretesto per imporre all’Europa il vecchio programma neoliberista di privatizzazione assoluta della società? È questo programma che ha portato a deviare dal bel progetto europeo. Oggi l’Unione Europea, e l’eurozona in modo del tutto particolare, coincide infatti con la più grande esperienza di privatizzazione antidemocratica probabilmente mai realizzata nel mondo. L’indipendenza della Banca centrale europea (Bce), per esempio, si rivela essere, prima di ogni altra cosa, un modo di sottrarre dalle mani degli Stati il potere sovrano di creazione monetaria, per meglio affidarlo al settore bancario privato. E la Bce quando, nel luglio del 2015, ha deliberatamente privato le banche greche dell’approvvigionamento di liquidità, una settimana prima del referendum di Tsipras, ha reso manifesto come il suo mandato non sia tanto di vigilare sulla stabilità finanziaria quanto sulla stabilità politica. Si trattava, né più né meno, di far cadere un governo democraticamente eletto, ma con il torto di aver voluto rinegoziare l’applicazione dei Trattati europei. Mentre la Germania di Schaüble si autorizza da sé a modificarne l’interpretazione come meglio le aggrada, Atene è invece condannata a un’ermeneutica a senso unico: privilegiare, prima di tutto e contro tutti, l’interesse dei creditori.  

Grecia ridotta a colonia  
Se il governo di Tsipras non è caduto, è semplicemente perché ha permesso la riduzione della Grecia allo stato di colonia: l’Europa del Nord ne saccheggia i beni pubblici, mentre al suo Parlamento non è più consentito votare una legge contraria a interpretare i Trattati come austerità. Il martirio della Grecia non potrà comunque avere l’effetto di sanarne la situazione economica: essa sarà sempre meno in grado di rimborsare il suo debito pubblico fintantoché la sua economia continuerà a essere salassata (le migliaia di miliardi di euro che abbiamo messo a disposizione delle banche per salvarle avrebbero invece permesso da lunga data di risolvere il problema greco). Per fare un esempio: chi, dopo questi avvenimenti, oserà ancora opporsi all’ordoliberalismo europeo? E Lisbona non è certo più robusta di Atene: la sua economia ha un’influenza troppo scarsa sulle economie dei Paesi del Nord perché questi ultimi si vedano costretti a negoziare con lei. La Spagna rimane in una situazione ambigua: se la deflazione che colpisce il sud del Paese finirà per avere la meglio sulla vitalità della Catalogna e dei Paesi Baschi, non potrà più resistere. 

Il «piano B»  
Italia e Francia hanno, al contrario, le forze per opporsi alla propria vassallizzazione. Il «piano B» che Yanis Varoufakis non ha potuto porre in atto ad Atene può essere concretizzato a Roma o a Parigi. A tal fine, è «sufficiente» che ognuno dei due Paesi metta in piedi uno stretto controllo dei capitali alle frontiere e batta in proprio la moneta che la Bce minaccerà di non distribuire alle rispettive banche. Le nostre banche allora falliranno ipso facto? Questo passaggio avrebbe almeno la virtù di mettere la situazione in chiaro: la maggior parte di esse non ha affatto sanato i propri bilanci dopo la crisi dei subprime. Sono banche-zombie che sostanzialmente sopravvivono perché riprestano ai nostri Stati, a tassi d’interesse positivi, il denaro che dalla Bce ricevono in prestito gratuitamente. Una volta dichiarato il loro fallimento, non rimarrà che nazionalizzarle e, ispirandosi all’Islanda, rifiutare di pagare i debiti bancari ai Paesi del Nord, per lo meno finché questi si ostineranno a rifiutarsi di rinegoziare onestamente. Sarebbe poi il caso che i nostri Paesi osassero infrangere il più grande dei tabù: stamparsi la propria moneta. Certo non per uscire deliberatamente dall’area dell’euro (nessuno sa cosa ciò significhi giuridicamente), ma per sopravvivere in un’eurozona dove la Bce utilizza l’arma dell’asfissia monetaria per far cadere i governi non graditi alla sfera finanziaria privata. Per ricuperare l’indipendenza monetaria, basta avere una zecca funzionante e fondi propri, in seno alla Banca centrale nazionale, equivalenti a circa il 5% del Pil. 

Il «piano» del Nord  
A dirla tutta, si può prevedere che, se il governo di uno dei nostri due Paesi si dicesse pronto per quest’operazione, neppure avrebbe bisogno di passare poi all’azione. La Germania e i Paesi del Nord Europa – Austria, Paesi Bassi, Finlandia, Benelux – abbandonerebbero preventivamente l’eurozona per rifugiarsi in una «zona marco» al riparo da ogni dibattito politico. Questo secondo «piano B», quello del Nord, è attualmente in discussione, sottovoce, in seno alle banche centrali dei Paesi in questione… Metterlo in atto farebbe però portare la responsabilità della deflagrazione dell’eurozona ai Paesi del Nord. C’è da scommettere che questi ci penseranno due volte prima di decidersi a tale passo. Un governo con la forza di brandire una minaccia seria – come quella di chiudere le frontiere e di battere la propria moneta indipendentemente da Francoforte – avrebbe insomma i mezzi per riportare tutti i Paesi dell’area dell’euro al tavolo del negoziato politico. 

Salvare il progetto europeo  
L’obiettivo? Salvare il progetto europeo. L’attuale traiettoria dell’eurozona, infatti, è forse la via più breve per distruggere le economie del Sud una ad una (e dopo, inevitabilmente, quelle del Nord) e riaccendere l’odio tra gli europei. Il lettore lo sa bene: tutta la difficoltà sta nel trovare un governo capace di un simile coraggio politico. Renzi pare troppo occupato a smontare il mercato del lavoro italiano, e dunque a eseguire il programma neoliberista di privatizzazione del lavoro, per poterlo anche solo immaginare. In Francia, il Partito «socialista» è intrappolato dal lascito dei socialdemocratici francesi che hanno modellato l’architettura mondiale del neoliberismo: Delors, Lamy, Camdessus, Strauss-Kahn… L’Fmi, l’Ocse, il Wto e l’Unione Europea sono stati tutti pensati da questi «socialisti» come strumenti a servizio di una privatizzazione «universale». Oggi, fortunatamente, l’Ocse ha fatto il suo aggiornamento, il Wto ha perso quasi tutto il potere che aveva e la Cina finirà per obbligare l’Fmi a riformarsi. Rimane l’Unione Europea del Trattato di Maastricht, ultimo bastione degli apprendisti stregoni degli anni Ottanta e Novanta. Difficile immaginare che possa essere messa sotto indagine e poi ricostruita dagli eredi stessi di coloro che l’hanno edificata. 

Energia per un’altra Europa  
La tesi di questo libro è che la transizione energetica e, più largamente, ecologica è il grande progetto politico, economico, sociale, spirituale… capace di ispirare ai democratici italiani e francesi il coraggio di dire no a questa Europa. E l’energia per costruire un’altra Europa. L’enciclica Laudato si’, come pure il discorso di papa Francesco ai movimenti popolari a Santa Cruz in Bolivia (9 luglio 2015) sono un chiaro invito, non solo ai cattolici ma anche a tutte le donne e gli uomini di buona volontà, a non sostenere più la follia antidemocratica di istituzioni europee che disprezzano la loro periferia tanto quanto disprezzano l’ecosistema planetario. I cattolici dovranno dunque fare fronte comune con le forze politiche democratiche che oseranno prendere l’iniziativa di fare dell’Europa la pioniera di una società decarbonizzata e attenta ai più poveri. Per salvaguardare la nostra «casa comune», la Terra. E in modo speciale l’ala europea di questa bella casa. 


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