giovedì 12 settembre 2024

GESU' Storico


Gesù storico nelle fonti pagane

Il documento più antico è una lettera (la n. 96) giunta a Roma fra il 111 e il 113, scritta dal governatore di Bitinia Plinio il Giovane all’imperatore Traiano.
Nella lettera Plinio il Giovane chiede istruzioni circa il comportamento da tenere nei confronti dei cristiani. Dopo aver illustrato i sistemi usati per far abiurare i cristiani e ricondurli al culto imperiale, il testo contiene interessanti informazioni circa il comportamento dei cristiani dell’Asia Minore. “D’altra parte, essi affermavano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, avanti l’alba, di cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio…”. Di notevole interesse è la testimonianza dello storico romano Tacito. Questi fra il 115 e il 120, nei suo Annales (XV, 44), rievocando l’incendio di Roma del 64, parla dei cristiani e di Cristo. “Tuttavia, né per umani sforzi né per elargizioni del principe né per cerimonie propiziatrici dei numi perdeva credito l’infamante accusa per cui si credeva che l’incendio fosse stato comandato. Perciò, per tagliar corto alle pubbliche voci, Nerone inventò i colpevoli e sottopose a raffinatissime pene quelli che il popolo chiamava cristiani e che erano invisi per le loro nefandezze. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato…” da Publio Cornelio Tacito, Annales. Verso il 120, un altro storico, Svetonio, nella sua Vita di Claudio accenna a Cristo e ricorda che: “i giudei, che tumultuavano continuamente per istigazione di Cristo, furono cacciati da Roma.” Il testo si riferisce al decreto di espulsione degli ebrei da Roma del 49-50 voluto dall’imperatore Claudio. Dell’avvenimento troviamo testimonianza anche negli Atti degli Apostoli (At 18, 2). Sembra che Svetonio, riportando la notizia dei tumulti all’interno della comunità degli ebrei di Roma, attribuisse a Gesù la causa dei disordini. Questa breve notizia vuole forse informare del fatto che all’interno della comunità ebraica di Roma alcuni affermavano che Gesù era il Messia e altri lo negavano e, quindi, della tensione fra ebrei e prima comunità cristiana.      Il fatto che Svetonio pensi che Cristo fosse a Roma e che non distingua fra cristiani ed ebrei è spiegabile con il fatto che scrive una settantina di anni dopo gli avvenimenti e dalla sua scarsa conoscenza del cristianesimo. Scrivendo di Nerone, Svetonio ritorna a parlare dei cristiani, definendoli «seguaci di una nuova e malefica setta». Esistono altre piccolissime tracce in alcuni scrittori del II secolo, come il filosofo Epitteto, l’imperatore Marco Aurelio, il retore Frontone e pochi altri.

Gesù storico nelle fonti ebraiche

Delle migliaia e migliaia di pagine del Talmud, un testo sacro dell’ebraismo, soltanto in una dozzina di passi è menzionato Gesù e quasi sempre in modo negativo. Emblematico questo brano tratto dal Talmud e risalente probabilmente al II secolo: “Riporta la tradizione: la vigilia di Pasqua è stato impiccato Gesù. Un araldo gli camminò dinanzi per quaranta giorni, dicendo: “sarà lapidato perché ha praticato la magia e ha ingannato Israele. Chi conosce la maniera di difenderlo venga a testimoniare in suo favore”. Ma non si trovò nessuno che testimoniasse in suo favore, e quindi fu impiccato alla vigilia di Pasqua.” Di tono totalmente diverso è la breve testimonianza dello storico ebreo Giuseppe Flavio nato nel 37 d.C., quindi poco dopo la morte di Gesù di Nazaret. Nella sua opera Le antichità giudaiche gli dedica un solo paragrafo: “Allo stesso tempo, circa, visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti giudei e molti greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumeri altre cose meravigliose su di lui. E fino a oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti cristiani.” da Giuseppe Flavio, Le antichità giudaiche, vol. II 

Gesù storico nei Vangeli

  • I Vangeli non sono stati scritti da Gesù, ma sono nati dalle fede e dalla riflessione delle prime comunità cristiane.
  • Occorre prendere atto della diversità dei Vangeli, in particolare della differenza tra i Vangeli sinottici e il Vangelo di Giovanni. I Vangeli sinottici sono i Vangeli scritti da Marco, da Matteo e da Luca e sono detti sinottici perché è possibile leggerli sinotticamente, cioè in parallelo su tre colonne.
  • I Vangeli non sono delle biografie.

Eppure per molti secoli quello che dicevano i Vangeli era di fatto avvenuto così come era stato narrato. Solo dal XVIII secolo si pose quella che può essere definita la moderna questione del Gesù storico. Il primo a porre il problema del Gesù storico fu il filosofo e scrittore tedesco illuminista, seguace del deismoHermann Samuel Reimarus (1694-1768). La sua tesi è semplice: Il Gesù della storia non corrisponde al Gesù dei Vangeli. Il Gesù storico fu un liberatore politico che fallì nel suo intento. I discepoli non rassegnandosi al suo fallimento, costruirono con invenzioni e manipolazioni della realtà il Cristo dei cristiani. Ad una conclusione simile pervenne il teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976). Per Bultmann non è il Gesù storico a essere rappresentato nei Vangeli, ma la fede della prima Chiesa. Noi possiamo venire a contatto solo con il Cristo annunciato dalla comunità cristiana che ci è stato trasmesso sotto forma di discorso mitologico. Il nostro sforzo deve essere quello di demitizzare, cioè di tradurre il linguaggio mitico in un linguaggio moderno, comprensibile per l’uomo e il credente di oggi.




martedì 23 luglio 2024

BIBBIA: una sintesi chiara


La Bibbia è il libro sacro degli ebrei e dei cristiani.

Gli Ebrei chiamano la Bibbia TaNaK, dalle iniziali delle sue tre sezioni:T è la Torah, ossia i primi cinque libri, chiamati anche Pentateuco – Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, i quali non sono considerati ispirati da Dio ma rivelati da Dio a Mosè sul monte Sinai;
N sono i Mevi’im, i Libri dei Profeti;
K sono i Ketuvim, gli Scritti, cioè tutti gli altri libri.
Questo corpo di scritture è in ebraico, con alcune piccole parti in aramaico, un’altra lingua semitica.
“Bibbia”, invece, non è un termine di origine ebraica, ma greca. Il nome “Bibbia”, infatti, viene dal greco ta biblia “i libri”, cioè i libri per eccellenza (perché sacri); è una denominazione nata ad Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C. Qui, sotto la dinastia dei re Tolomei, in un clima di grande fervore intellettuale e di incontro fra culture diverse, viveva una folta comunità ebraica, che probabilmente non parlava più correntemente la lingua originaria e aveva bisogno di una traduzione in greco (la lingua “internazionale” di quel tempo) dei propri libri sacri. La leggenda attribuisce questa traduzione, nota come Bibbia dei Settanta, a 72 dotti ebrei, sei per ogni tribù di Israele.
La Bibbia dei Settanta è tuttora la versione liturgica dell’Antico Testamento usata dalla Chiesa ortodossa orientale di tradizione greca. La versione in lingua latina (lingua ufficiale dell’Impero romano d’Occidente) fu operata direttamente dal testo ebraico da san Girolamo su incarico di papa Damaso I.
San Girolamo non tradusse alla lettera gli originali, ma si preoccupò di renderne il senso. Il nome Vulgata con cui è indicata questa traduzione è dovuto alla frase latina vulgata editio (“edizione per il popolo”). Essa fu infatti scritta nel latino del V secolo d.C. e non nel latino classico perché fosse accessibile e più facile da capire dai chierici.
La Vulgata fu dichiarata autentica, cioè autorevole sul piano dottrinale, dal Concilio di Trento. Ha rappresentato il testo ufficiale della Chiesa e della liturgia cattolica fino al secolo scorso, quando per l’Antico Testamento si è cominciato a utilizzare direttamente il testo masoretico (la Bibbia in lingua ebraica) e per il Nuovo Testamento direttamente i testi greci.
Dopo il Concilio Vaticano II le varie Chiese cattoliche nazionali hanno elaborato e adottato nel culto liturgico versioni della Bibbia nelle varie lingue nazionali.
Antico e Nuovo Testamento
La Bibbia è costituita dall’Antico Testamento, comprendente i libri redatti prima di Gesù, e dal Nuovo Testamento, comprendente i libri che riguardano la predicazione di Gesù e degli Apostoli.
L’Antico Testamento è un testo sacro sia per gli Ebrei sia per i Cristiani, il Nuovo Testamento solo per i Cristiani.
L’Antico Testamento, dunque, è comune a Ebrei e Cristiani, ma con alcune varianti. Infatti il canone ebraico (per “canone” s’intende l’elenco dei libri che sono stati riconosciuti dai credenti come autentica parola di Dio, cioè ispirati) comprende solo i 39 libri dell’Antico Testamento scritti in ebraico; il canone cattolico comprende 46 libri per l’Antico Testamento, 27 per il Nuovo Testamento.
I libri esclusi dal canone sono detti apocrifi.
I 46 Libri dell’Antico Testamento secondo il canone cattolico sono così suddivisi:i 5 Libri del Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio)
i 16 Libri Storici
i 7 Libri Poetici e Sapienziali
i 18 Libri Profetici
I 39 Libri del canone ebraico comprendono:i 5 Libri della Torah
i 21 Libri de “I Profeti”
i 13 Libri degli “Scritti”
Il canone del Nuovo Testamento comprende:
4 Vangeli (Matteo, Marco, Luca, Giovanni)
gli Atti degli Apostoli
le Lettere degli Apostoli
l’Apocalisse

domenica 7 aprile 2024

La Chiesa nella Piacenza medievale


Piacenza, posizionata strategicamente all'incrocio di antiche strade e lambita dall'arteria fluviale del Po, emergeva nell'Europa medievale come un vitale centro di passaggio e di connessione. Questa città, vivace crogiolo di attività economiche e commerciali, fu testimone di un'impetuosa attività edilizia che interessò tanto i grandi cantieri civili quanto quelli religiosi. Le sapienti mani di maestri come Wiligelmo e Nicolò, due tra i più celebrati scultori romanici, contribuirono a plasmare il volto urbanistico di Piacenza, arricchendolo di opere d'arte di inestimabile valore.

La città medievale vanta una miriade di chiese e monumenti che delineano il suo profilo, tra i quali spicca la maestosa cattedrale, splendido emblema del romanico emiliano. Iniziata nel 1122, la costruzione si protrasse fino al 1341, risultando in un edificio di straordinaria imponenza. La facciata, ornata da protiri e decorazioni che narrano episodi della vita di Cristo, testimonia l'abilità e la creatività degli artisti del tempo. All'interno, le navate racchiudono bassorilievi che celebrano le corporazioni artigiane, i paratici, fulcro dell'economia cittadina.

Altra perla della spiritualità piacentina è la chiesa di San Giovanni in Canale. Fondata nel XIII secolo dai Domenicani, essa rappresenta un importante testimone della vita conventuale dell'epoca, nonché della funzione inquisitoriale che l'ordine vi esercitò fino alla soppressione nel 1797. L'interno, arricchito nei secoli da stucchi, dorature e opere d'arte come i monumenti sepolcrali della famiglia Scotti e la cappella del Rosario, narra la storia di una comunità profondamente legata alla propria fede.

Il Gotico, palazzo comunale eretto nel 1281, pur non essendo un edificio religioso, riflette l'influenza ecclesiastica nel tessuto sociale e culturale di Piacenza. La sua architettura, con il loggiato in marmo rosa di Verona e il cotto rosso del piano superiore, testimonia l'importanza del mecenatismo laico in un'epoca dominata dal sacro.

La chiesa di San Francesco, edificata tra il 1278 e il 1365 in stile gotico, incanta per l'ampiezza delle sue navate e la ricchezza degli affreschi, tra cui emerge lo splendido Giudizio Universale. Anche in questo caso, l'arte si fa veicolo di messaggi spirituali, educando i fedeli attraverso le immagini.

Queste meraviglie architettoniche e artistiche, insieme a molte altre disseminate nella città, testimoniano l'importanza che la Chiesa ebbe nella Piacenza medievale non solo come istituzione religiosa, ma anche come promotrice di cultura, arte e bellezza. L'eredità di quel periodo brilla ancora oggi, invitando alla scoperta di un passato ricco di fascino e spiritualità.





sabato 30 dicembre 2023

Il senso della vita tra filosofia, letteratura e psicologia



Fine anno, tempo di bilanci e riflessioni. C’è chi è ossessionato dal significato della vita e ricerca infruttuosamente il senso senza trovarlo. C’è chi pensa di averlo trovato ed è felice per questo.
C’è chi pensa di avere trovato il senso e perciò cambia completamente vita; c’è chi, pensando di averlo trovato, continua a vivere come prima, lasciandosi sopraffare dagli eventi, continuando a procedere per inerzia: si lascia quindi trascinare dalla corrente. Non necessariamente pensare di aver trovato il senso della vita significa sapere cosa fare della propria vita.
La stragrande maggioranza di noi continua a vivere, lasciando in sospeso la questione, spesso dimenticandola o addirittura rimuovendola dalla mente.
Ci sono alcuni aspetti della condizione umana che ci terrorizzano: lo scorrere inesorabile del tempo, la nostra precarietà, la nostra incertezza esistenziale, la nostra finitezza. Alcuni ritengono che il senso della vita sia seguire fedelmente i principi e le regole della loro religione. Altri pensano che il senso dell’esistenza sia vivere in armonia con gli altri e con la natura. Altri pensano che bisogna perseguire la felicità; altri ritengono che l’importante sia mettere ordine nella propria vita; altri ancora si impegnano nell’autoperfezionamento; altri aspettano l’illuminazione interiore; altri pregano; altri ancora lavorano per lasciare un patrimonio ai figli; altri fanno del bene agli altri; altri ancora vogliono dare un apporto significativo in qualche ambito della conoscenza umana.
Ci sono alcuni che vivono un’esperienza pre-morte e dopo sono totalmente cambiati: sisentono nuovi o, quantomeno, rinnovati. Già da bambini ci facciamo quelli che Popper considerava gli interrogativi ultimi (dove eravamo prima di nascere?; Verso dove andiamo?; Esiste Dio?; Esiste la vita dopo la morte?).
Da adulti facciamo di tutto per non pensarci. Siamo in mille faccende affaccendati e siamo distratti. La maggioranza di noi non cerca il senso della vita, ma si adegua totalmente al senso che le danno familiari ed amici.
Di solito si vive in modo superficiale, perché il divertissement è l’unico modo per non pensare alla morte, secondo Pascal. Siamo molto conformisti anche in questo. Spesso non ci sforziamo, non andiamo oltre.
Non solo ma, come scriveva Oscar Wilde:
Chi scende sotto la superficie, lo fa a proprio rischio.
Andare in profondità significa approfondire per l’appunto e ciò significa fare sforzi, fare fatica, oltre a scoprire tare e magagne. Essere superficiali è molto più comodo. Così abbracciamo il conformismo. Di solito ereditiamo non solo i geni ma anche religione,convinzioni politiche, comportamenti sociali.
Alcuni, per puro spirito di contraddizione, si mettono contro i propri familiari e scelgono per ribellismo e antitesi.
Tutto ciò mi ricorda il verso di una vecchia canzone di Guccini:
Ma quali scelte hai fatto in piena libertà?

Il senso della vita tra filosofia e letteratura
Alcuni pensatori credono che il vero senso della vita sia nel ricercarlo incessantemente; il fine ultimo sarebbe la “ricerca”, quindi “cercare”, anche senza trovare. Per Heidegger siamo “gettati nel mondo”.
Per Albert Camus nell’esistenza umana esiste l’assurdo, che supera la nostra intelligenza. Ogni uomo è perciò costretto a fare la fatica di Sisifo.
Per Hermann Hesse la vita non ha un senso in sé, ma siamo noi che dobbiamo attribuirle un senso. Per dare un nuovo senso alla vita bisogna imbattersi in un evento, in una persona, in un’idea o in un valore che per noi siano veramente significativi e che ci aiutino a far cambiare rotta.Alle volte penso che più che la logica per comprendere la vita ci voglia l’istinto.Un tempo cercavo delle “ragioni razionali per credere nell’assurdo”, come scriveva un poeta minore e dimenticato della Beat Generation. La vita talvolta mi mostrava la sua illogicità. Non è con la logica deduttiva e con il principio di non contraddizione che si può decifrare la vita, che ha i suoi aspetti contraddittori e conflittuali.
Negli anni Settanta secondo un celebre slogan La vita era altrove, quando ancora pochissimi conoscevano l’omonimo romanzo di Milan Kundera, scritto nel 1973 ma pubblicato in Italia con Adelphi solo nel 1992.
Alcuni in crisi mistica lasciano tutto ed entrano in convento oppure si mettono a girare il mondo per trovare una risposta. Alcuni cercano risposte nell’ipnosi regressiva e una volta che sanno chi sono stati nelle vite precedenti ritengono di essere più consapevoli. Alcuni vogliono sperimentare qualsiasi cosa, vogliono arricchire la loro esperienza, si drogano per espandere la coscienza. Alcuni in odore di santità cercano di annullare il loro io, di annullarsi per dedicarsi totalmente a Dio.
Altri si aspettano una risposta da religiosi, mistici, scienziati, artisti, intellettuali.


Perché il senso della vita ci sfugge
Altri rivalutano la follia e pensano come Montale, che solo i pazzi possano capire la vita “a lampi e sprazzi”: la follia quindi come dispensatrice di conoscenza ultima, tutto il contrario di quello che accadeva secoli fa con l’emarginazione dei folli, con le navi dei folli. Già prima della legge Basaglia qualcuno pensava che i pazzi fossero fuori (dai manicomi). Quasi impossibile capire la nostra vita, quella degli altri e come queste si intrecciano. È bene che ce lo mettiamo in testa: non siamo fatti per capire la vita e non abbiamo alcuna certezza assoluta sul suo significato.
Il senso della vita spesso sfugge irreprensibile.
Ci sono degli istanti di raccoglimento interiore o anche degli attimi comuni in cui ci sembra di aver capito tutto, ma sovente un istante dopo ci accorgiamo che è solo una piccola e povera illusione, un effimero autoinganno. C’è chi pensa come i religiosi che bisogna vivere, pensando all’aldilà, essendo perciò timorosi di Dio, rispettando i suoi precetti. C’è chi pensa come Nietzsche che non bisogna mortificare l’aldiqua per un aldilà di cui non c’è nessuna certezza. Di solito avere fede aiuta prima di tutto i credenti. Chi crede di solito sta meglio, è più in pace con sé stesso, vive più serenamente la vita. Ma questo è vero solo a grandi linee perché è difficile penetrare nell’animo umano, che è per definizione insondabile.
La vita può rivelarsi inesauribile per le opportunità e le sorprese che riserva. Quando tuttosembra perduto un evento o un incontro possono cambiare completamente direzione alla vita.
Alcuni si affidano ai santoni, ai guru dell’occulto. Altri studiano le filosofie orientali, praticano esercizi spirituali e meditazione per raggiungere l’assenza di sé.
La stragrande maggioranza di noi si adegua allo spirito dei tempi. Per i filosofi si dovrebbe pensare spesso alla nostra morte.
La verità è che già difficile per noi pensare alla “morte” in senso lato, quasi impossibile pensare spesso alla nostra dipartita. È una cosa che tendiamo a rimuovere. Solo andare al cimitero, vedere tutte quelle tombe ci ricorda brutalmente che anche noi un giorno avremo un posto lì, che è quello il nostro destino.
Non possiamo sottrarci in nessun modo a questa sorte. Si vive nella nostra comfort zone, ci si affida al solito circolo di pensieri abituali e alle nostre abitudini, che sono lì a confermarci che tutto procede in modo ordinario e che tutto va bene. Le nostre abitudini sono rassicuranti. È meglio il solito grigiore dell’esistenza di una disgrazia inaspettata, della morte di un familiare o un amico. Solo un imprevisto, un triste evento, un fatto irreparabile rompe la monotonia, ci angoscia, ci deprime, ci travolge. Continuiamo la solita vita fino all’ineluttabile, al “rien ne va plus”.
Wittgenstein nel Tractatus scrisse:
Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non saranno neppure sfiorati.

Il senso della vita tra scienza e religione
Sembra impossibile che la scienza ci renda immortali. Allo stato attuale delle conoscenze i medici ritengono che al massimo si possa vivere 120 anni e non oltre. Per soddisfare il desiderio di immortalità gli uomini fanno figli, perpetuando la specie, oppure cercano di creare opere creative memorabili, cercando quindi la gloria postuma. Nonostante lo scientismo attuale il progresso scientifico non può fare chiarezza nel cuore dell’uomo. Può migliorare le nostre condizioni sanitarie, igieniche, economiche, insomma materiali. Però, come si suol dire, l’uomo non vive di solo pane. Almeno in Italia esiste un conflitto latente tra preti e psicologi. Gli uni nutrono scetticismo e perplessità nei confronti degli altri. Sono avversari. I preti dovrebbero curare l’anima. Gli psicologi dovrebbero curare la psiche.
Un tempo psiche significava “anima”. In questa sede ci occuperemo per sommi capi delle scienze umane e del loro studio sul senso della vita.

Il senso della vita secondo la psicologia
Anticamente si riteneva che uno dei fini principali dell’esistenza fosse ricercare il piacere ed evitare il dolore, ma poi si sono accorti che ciò era troppo riduttivo, gretto e materialista. Cercare di dare un senso alla vita significa anche sommariamente e approssimativamente dare un senso all’ignoto, all’esistenza della sofferenza, delle ingiustizie, del male e della solitudine.
La psicologia ha superato perciò la dicotomia del principio di piacere e del principio di realtà freudiani. Insomma non era tutto lì e c’era molto di più. Secondo R. Henrik nel 1980esistevano 250 orientamenti psicoterapici. Oggi probabilmente sono leggermente aumentate le scuole di psicoterapia e sono sicuramente aumentati in modo esponenziale psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, almeno in Italia.
Secondo Mahoney, un epistemologo della psicologia, bisogna sempre ricordarsi che:
La scienza di oggi potrebbe essere l’alchimia di domani.
In questo articolo mi limiterò a dare alcuni input in estrema sintesi sugli psicologi, che hanno affrontato in modo più esistenziale e approfondito il senso della vita, anche se ogni psicologo ha una sua particolare concezione della vita.
Un limite intrinseco della psicologia è, come sottolinea S. Marhaba, la “soggettività del ricercatore”, che può deformare i risultati.
Jung nel Libro rosso scrisse:
Le cose che accadono sono sempre le stesse. Non è sempre uguale invece la profondità creativa dell’essere umano. Le cose di per sé non significano nulla, assumono un significato soltanto dentro di noi. Siamo noi a dare significato alle cose. Il significato è ed è sempre stato artificiale. Siamo noi a crearlo.
Secondo Adler, fondatore della psicologia individuale, l’uomo per dare un senso alla propria vita deve risolvere il problema occupazionale, il problema sociale e deve trovare l’amore.Secondo il costruttivismo ogni “uomo è inventore della realtà” e ha una sua particolare visione del mondo. Ogni uomo è allo stesso tempo costruttore e portatore di significato. Ogni uomo è come uno “scienziato”, che elabora teorie e cerca di dare un senso alla sua esistenza.


Tra psicologia transpersonale e piramide dei bisogni di Maslow
Secondo la fenomenologia ogni coscienza è intenzionale, cioè orientata verso l’altro, e ogni visione del mondo è determinata dall’esperienza vissuta.
Viktor Frankl elaborò la sua psicoterapia, la logoterapia, dopo essere sopravvissuto all’esperienza del campo di concentramento. Secondo la logoterapia l’uomo per vivere non deve accontentarsi di ripristinare l’omeostasi, ripristinando l’equilibrio dell’organismo. Deve cercare un senso nell’altro da sé.
Il concetto chiave di questa scuola di psicoterapia è l’auto-trascendenza. Frankl chiedeva a ogni paziente non per quale ragione vivesse ma perché non si uccidesse. Secondo Frankl:
L’uomo deve andare oltre sé stesso, deve cercare qualcosa o qualcuno, insomma un obiettivo esterno grazie a cui realizzarsi pienamente.
Secondo la psicologia transpersonale, in particolare secondo lo schema psichico di Roberto Assagioli ogni uomo dovrebbe valicare il campo di coscienza ordinario, andare oltre la realtà ordinaria e giungere al proprio Sé per approdare quindi all’inconscio collettivo.
Secondo la psicologia transpersonale l’uomo dovrebbe provare esperienze mistiche, espandere la propria coscienza, anche con lo sciamanesimo. Dovrebbe riconoscersi perciò una “fragile fibra dell’universo” come scriveva Ungaretti.
L’uomo è un “animale simbolico”. All’uomo non bastano solo le equazioni, la logica deduttiva e i nessi causali: vuole anche intuire le forme ed esprimere la propria parte più profonda. Lo psicologo Maslow intervistò migliaia di persone, chiedendo quali fossero i momenti più felici della loro vita. Definì questi momenti peak experience, ovvero esperienze culminanti o di punta. Soltanto chi vive spesso questi particolari momenti, secondo Maslow, è capace di autorealizzarsi. Secondo la piramide dei bisogni di Maslow quelli fisiologici sono solo il primo gradino. Al vertice della piramide c’è l’autorealizzazione dell’individuo.
La fruizione artistica, la creatività, il rapporto con la natura, l’ascesi, la riflessione intellettuale, fare l’amore sono tutte peak experience.
Lo stesso Leopardi ne Lo Zibaldone scriveva che aveva provato la più grande felicità nel comporre. Ciò va ricordato in quest’epoca contrassegnata dalla decostruzione del simbolico.
Concludendo, ogni cervello umano è unico. Anche i gemelli omozigoti hanno cervelli differenti. La nostra vita è unica e noi stessi siamo unici e irripetibili. Ognuno è una storia a sé. Quindi ognuno può dare un senso unico alla propria vita, se non si lascia appiattire e livellare dai mass media e dalla pressione degli altri.


Davide Morelli Pubblicato il 28-12-2023  (sololibri.net)



venerdì 1 dicembre 2023

Don Claudio e Baby Gang

 



“Ma è vero che non esistono ragazzi cattivi, ma ragazzi che mi fanno impazzire, sì, e ne ho parecchi... Io vivo con una cinquantina di adolescenti. Quasi tutti autori di reato e il lunedì sera, alle 19, un incontro che chiamiamo koinè, una assemblea dove affrontiamo le varie problematiche emergenti della settimana o del periodo, per cui devo dire che in questo periodo abbiamo ragazzi belli, tosti”. Così don Burgio, arrivato a Piacenza, dalla sua comunità di Milano, ha iniziato l’intervento, il 27 novembre, alla parrocchia di San Vittore alla Besurica. L’incontro, organizzato dal Centro Culturale “Incontriamoci”, ha visto una sala gremita di giovani e adulti. Don Claudio Burgio, nato a Milano nel 1969, ordinato sacerdote l’8 giugno 1996, nel Duomo di Milano, dal cardinale Carlo Maria Martini, cappellano al carcere minorile “Beccaria” di Milano, è il fondatore della comunità Kairos che accoglie minori adolescenti e giovani maggiorenni (14 - 25 anni) con procedimenti penali, provvedimenti amministrativi e civili in atto allo scopo di promuovere progetti personalizzati finalizzati al reinserimento sociale autonomo e responsabile. Don Claudio coniuga l’attività pedagogica, che lo vede impegnato quotidianamente con i ragazzi delle comunità, a quella di esperto del mondo giovanile, come protagonista di numerosi interventi in dibattiti e incontri pubblici su temi sociali di attualità.

La fragilità dei ragazzi

“I giovani che incontro - ha affermato don Claudio - sono di una fragilità estrema. Quando poi sono in confidenza con me, mi dicono di aver subito bullismo. Ciò significa che il bullismo nasce, non per attaccare, non perché vuoi prenderti la soddisfazione di mettere in difficoltà un altro ragazzo, ma perché è come un sistema di difesa. Io ti attacco per evitare che tu scopri la mia debolezza che mi rende fragile. Allora, prima di subire ancora ti faccio vedere chi sono. Tiro fuori i miei artigli, anche se non li ho”. In questo modo don Burgio ha spiegato l’accentuarsi di tanti fenomeni di bullismo oggi.

Don Claudio e Baby Gang

“Qualche anno fa è arrivato in carcere - ha aggiunto don Burgio - un quindicenne che non parlava mai, né con gli assistenti sociali, né con con gli psicologi. Dopo un anno e mezzo finalmente mi chiede: “Don, ci ho pensato su tanto, e vorrei venire nella tua comunità”. Gli rispondo come mai volesse venire da me, e lui mi ha risposto che era appassionato di musica. “So che nella tua comunità - mi dice - si fa musica, ed io farò il cantante”. Allora io ci ho pensato un paio di giorni e gli ho detto che l’avrei accolto: “Lo chiediamo al giudice, però farai musica - gli ho fatto presente - e la farai sul serio, quindi comincia a scrivere le tue canzoni. Ti porterò io personalmente a registrarle in studio di registrazione”.
Certo adesso i ragazzi sanno di chi parlo. Lui mi spalanca la sua vita e così è iniziata la fiducia tra noi. Il ragazzo in questione è Baby gang, pseudonimo di Zaccaria Mouhib, nato a Lecco, 26 giugno 2001, uno dei più inquietanti rapper del momento. Per gli adulti è un pericolo sociale, per me è un ragazzo. Ascoltando le sue canzoni, mi sono chiesto: come è possibile che tanti ragazzi delle case popolari abbiano già vissuto tutte queste cose? La trap è il racconto di storie impossibili, eppure vere. E’ iniziato tutto così…con un incontro imprevedibile”. 

La testimonianza di Daniel

Un altra storia descritta da don Claudio è quella di Daniel, al Beccaria per una rapina in banca. “Tre anni di carcere - racconta don Burgia - con vari trasferimenti per cattiva condotta. Uscito dal carcere, ne passa due anni da noi in comunità, ma, terminato il periodo, finisce nuovamente in cella, a San Vittore stavolta. Allora mi ricontatta per chiedermi di nuovo aiuto. Lo riprendo senza ombra di dubbio, nonostante tutti me lo avessero sconsigliato. Quella è stata la volta buona: è tornato a scuola a 23 anni e poi si è anche scritto all’università. E’ appena uscito il suo libro, dal titolo “Ero un bullo”, che vi consiglio (“Ero un bullo – La vera storia di Daniel Zaccaro” di Andrea Franzoso, De Agostini editore)”. Una testimonianza - per don Burgio - che evidenzia come dei giovani, immersi nella devianza, grazie ad incontri significativi, sono riusciti a cambiare”.

Riscoprire l'umanità dietro le sbarre

Il carcere come istituzione ha sempre suscitato dibattiti e controversie, ma raramente si è riusciti a focalizzare l'attenzione sulla reale necessità di rieducazione e sulla mancanza di un approccio umanitario verso i detenuti. A Piacenza, l'intervento del cappellano del carcere minorile di Milano "Beccaria", ha gettato nuova luce su questa questione, evidenziando con forza come la detenzione spesso prevalga sulla rieducazione nelle strutture carcerarie.
Don Claudio ha ribadito con fermezza che il carcere non dovrebbe essere solo un luogo di punizione, bensì un ambiente finalizzato alla ricostruzione delle vite. Ha sottolineato come la mentalità giustizialista, che si concentra esclusivamente sulla punizione senza un reale impegno nella riabilitazione, debba essere superata. È essenziale passare da un'ottica repressiva a un approccio che ponga al centro l'educazione.
“Si può costringere un ragazzo, una volta che ha sbagliato, - ha sottolineato don Burgio - a buttarlo dentro una cella e sperare che cambi, si pensa che una cella possa fare da deterrente, ma può in qualche modo avviare un cambiamento? Nei miei 18 anni di cappellano al Beccaria e nei miei 23 anni di comunità vi dico la verità, non ho veramente mai avvertito che solo in forza delle regole si possa cambiare”.

Adulti credibili

Don Claudio ha evidenziato l'importanza di offrire ai giovani figure adulte credibili e autentiche. La mancanza di adulti capaci di trasmettere autenticità e fiducia ha portato a una deriva in cui i valori positivi vengono banalizzati. Don Claudio ha criticato coloro che, purtroppo, esprimono superficialmente concetti come "fai il bravo", senza comprendere appieno il significato del bene e del male. Per questo, secondo lui, risulta più affascinante per i giovani il male, poiché la mancanza di autenticità rende il bene poco convincente.
Nel suo discorso, don Claudio ha anche evidenziato una critica verso una visione distorta del cristianesimo, spesso presentato come una serie di riti tradizionali senza profondità e autenticità. Questo modo superficiale di trasmettere la fede rischia di privare i giovani della possibilità di esplorare la propria spiritualità in modo significativo e personale.
È interessante notare come, nonostante tutto, don Claudio abbia sottolineato che i giovani, ognuno a modo proprio, nutrono comunque una forma di fede.

Spiccare il volo

Don Claudio Burgio, concludendo il suo intervento a Piacenza, ha consegnato un messaggio potente e motivante ai giovani presenti. Con voce carica di speranza, ha incoraggiato i ragazzi a osare, a sognare in grande, e a credere nelle loro capacità.
Invitandoli a "spiccare il volo" e a "volare alto", don Claudio ha sottolineato l'importanza di avere fiducia in se stessi, di perseguire i propri obiettivi con determinazione e di non limitarsi dalle difficoltà o dalle circostanze avverse. Ha esortato i giovani a credere nelle proprie potenzialità, a non temere di sognare grandi traguardi e di perseguire i propri sogni con coraggio e determinazione.



martedì 18 aprile 2023

Visita alla Basilica di Sant'Antonino a Piacenza


Le uscite didattiche sono considerate in ambito didattico parte integrante e qualificante dell’offerta formativa e momento privilegiato di conoscenza, comunicazione e socializzazione; esse collegano l’esperienza scolastica all’ambiente esterno nei suoi aspetti  culturali e storico-artistici.

La visita alla basilica di Sant'Antonino a Piacenza, dello scorso 1 aprile, con la guida di Marco Carubbi, è stata un'esperienza che ha suscitato grande interesse ai ragazzi della 2B ITAS del Raineri-Marcora.