Parla il medico piacentino Francesca Lipeti. Dal 2015 è al lavoro in una zona di confine tra Kenya
e Tanzania. Gli inizi nel 1994.
Dalla metà degli anni ’90
è al lavoro in Africa,
prima in Kenya tra i
Masai a Lengesim, nella
struttura sanitaria avviata
da mons. Domenico Pozzi,
dal 2015 più a Sud, verso il
confine con la Tanzania, a Ilbissil,
a 150 km dalla capitale
Nairobi, per dar vita a un
nuovo centro di salute per i
più poveri.
È instancabile
l’opera del medico piacentino
Francesca Lipeti.
“Ilbissil - racconta al telefono
Francesca - è una cittadina
di confine che si sta sviluppando
molto rapidamente.
Ha due grandi mercati del bestiame
ed è raggiungibile grazie
ad una strada asfaltata.
Vi
convivono più etnie, religioni
e culture diverse.
È un lungo
andirivieni dalla Tanzania, il
commercio è molto sviluppato
e si trova facilmente lavoro.
Di fatto, però, molti vivono
alla giornata: qui non arrivano
neanche gli aiuti del Governo
e quelli internazionali.
L’area urbana conta circa 8mila
persone, ma con il circondario
si arriva anche a 100mila
abitanti.
Sul piano religioso,
oltre ai cattolici, che però
non hanno un sacerdote presente
stabilmente, vi sono i
pentecostali e gli anglicani”.
VERSO UNA ZONA DI CONFINE
— Come sei arrivata in questa
nuova realtà?
Dopo l’esperienza di Lengesim,
che porto sempre nel
mio cuore, avrei potuto rientrare
in Italia o collegarmi
all’ONU o all’UNICEF.
Non
volevo però perdere l’esperienza
vissuta in Kenia; sarei
rimasta nella savana, ma non
so perché, ad un certo punto,
ho avvertito questo invito ad
andare verso una città.
Mi è
stato consigliato di non vivere
proprio al confine tra due Stati;
si tratta di solito di zone
molto rischiose per il terrorismo
e i conflitti, e quindi molto
instabili.
Alla fine sono capitata
qui, ho rimediato due
stanzette in una clinica, che
potevano essere sistemate:
era il posto adatto a me.
— Ora di cosa ti occupi?
Sono in un ambulatorio in
periferia, tra le baracche, e mi
occupo sostanzialmente di
medicina di base con tante
vaccinazioni.
Essendo zona di
passaggio, passano anche le
più varie malattie.
A livello
sanitario la città è servita da
un centro di salute del Governo,
ma il personale è scarso, le
medicine non ci sono, per cui
attualmente non si può fare
tanto.
Non sono appoggiata a
nessun ospedale, lavoro sostanzialmente
da sola, ho un
aiutante che si occupa della
farmacia, una ragazza che fa
le pulizie e un guardiano; in
tutto, uno staff di quattro persone.
E ho un gruppo di amici
del luogo che mi aiutano dal
punto di vista amministrativo
nei contatti con il governo, nel
rinnovo delle licenze, nell’approvvigionamento
di medicinali.
— Non sei quindi legata a nessuna organizzazione nella
tua opera…
No, mi sono, per così dire,
messa in gioco da sola.
Ho voluto
misurare le mie capacità.
Mi sono dovuta reinventare:
da un punto di vista medico
ero abituata ad un certo tipo
di malattie e conoscevo bene i
ritmi e le caratteristiche del
luogo precedente.; ora ho
cambiato modo di lavorare e
sto imparando cose nuove.
A Ilbissil la situazione sociale
non è facile: la gente che arriva
dai villaggi per cercare lavoro,
perde le proprie radici,
la propria identità culturale e
in questo guazzabuglio non è
facile orientarsi.
Ci sono situazioni
di disagio, persone che si
sentono smarrite con un forte
senso di frustrazione: sono
state catapultate in una realtà
più individualista di quella
dei loro villaggi di origine.
I PROGETTI IN CANTIERE
— Guardiamo allora al futuro:
che progetti hai?
Prima di tutto, voglio conoscere
bene la situazione e le
persone.
Una volta che stabilisci
rapporti significativi, si
potrà essere più incisivi negli
interventi. Concretamente ci
terrei a rafforzare il laboratorio,
perché più fai analisi, meglio
si possono curare le persone
a cui si evita di andare in
ospedali lontani, facendo loro
risparmiare tempo e denaro.
Poi, vorrei creare un centro
per i giovani, dove possano
incontrarsi e insegnare loro
un po’ di informatica.
Un’altra
idea è un progetto per le
persone denutrite che, a causa
dell’AIDS o perché povere, o
per malattie gravi (tumori, tubercolosi),
non possono procurarsi
da mangiare in maniera
adeguata.
In questa missione sono sostenuta dall’associazione piacentina
“L’albero di Yoshua”,
che è il nome biblico di Giosuè
in lingua Masai.
Ci ispiriamo
al Giosuè della Sacra
Scrittura, una figura straordinaria
nel seguire il Signore
e nel condurre il popolo di
Israele: colui che entra nella
Terra promessa e che ha Dio
al suo fianco. L’associazione è
formata da persone che mi
hanno sempre aiutato; il presidente
è il commercialista
Leonardo Biolchi.
— L’Africa è il continente della
speranza, ma è anche
schiacciato dalle guerre,
dall’ISIS… Che cosa insegna
l’Africa al mondo?”
L’importanza dei rapporti
umani, dell’essere più dell’avere.
Noi con i nostri modelli
televisivi e pubblicitari
stiamo imponendo al popolo
africano un altro modo di vivere,
che è la logica dell’avere
e del possesso. Invece l’Africa,
che non deve perdere la
sua identità, ci insegna il senso
di comunità, l’aiuto reciproco
e che i rapporti interpersonali
sono fondamentali.
— Tu non hai mai paura?
Non ho paura, anche se
questo luogo è molto meno sicuro
di dove fossi prima.
Vi è
instabilità sociale, vi sono furti,
violenze, liti e contese.
Poi il
Kenya è esposto a fenomeni di
terrorismo; confina per buona
parte con la Somalia che non
ha un governo stabile da più
di trent’anni ed è sempre scossa
da una guerra civile.
Alcune
frange terroristiche, provenienti
da queste zone, fanno
raid contro la popolazione del
Kenya con attentati cruenti
che mietono molte vittime.
I
motivi per aver paura ci sono,
ma io continuo con determinazione
questo lavoro.
Davide Maloberti - Riccardo Tonna da Il Nuovo Giornale del 17/06/16
Ora di religione: un blog aperto a tutti gli studenti per confrontarsi e riflettere insieme...
martedì 19 luglio 2016
lunedì 11 luglio 2016
Commento al Vangelo di Matteo e al salmo 84
"Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccider l'anima..." Mt 10,28
"Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annunzia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli,
per chi ritorna a lui con tutto il cuore." salmo 84
"Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annunzia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli,
per chi ritorna a lui con tutto il cuore." salmo 84
lunedì 4 luglio 2016
Il teologo Basilio Petrà e lo sguardo verso la Chiesa Ortodossa
E’ un mondo che in parte
non riusciamo a cogliere
fino in fondo, ma con
il quale i papi, da Paolo
VI in poi, cercano di aprire un
dialogo costruttivo.
Stiamo parlando del mondo ortodosso, che a Creta a fine giugno ha vissuto il suo primo Concilio.
Ne parliamo con don Basilio Petrà, sacerdote di Prato, intervenuto nelle scorse settimane al convegno nazionale dal SAE al Centro pastorale Bellotta di Pontenure.
— Don Basilio, la Chiesa respira con due polmoni, l’Oriente e l’Occidente. Lei, che è nato da genitori ortodossi, come vede tutto questo?
Penso che bisognerebbe essere più consapevoli del fatto di avere più polmoni. Anzi, a dire il vero non sono soltanto due. C’è anche il polmone siriaco, una tradizione da non dimenticare. Un teologo dovrebbe prendere atto di questa molteplicità di presenze e di espressioni della Chiesa. Occorre, in altre parole, un’ampiezza cattolica reale del pensare e del sentire.
— Quali sono le caratteristiche principali del polmone orientale?
L’Oriente greco è segnato dalla percezione dell’esistenza umana chiamata alla divinizzazione. L’uomo è stato creato per diventare partecipe della natura divina condividendo l’esistenza di Dio in un disegno di comunione vitale. Nell’Oriente si avverte con forza che la Chiesa si colloca all’interno di una tradizione vivente con cui va mantenuto un legame costante. Tutto ciò non si oppone all’apertura alla novità e alle nuove necessità. Il Concilio ecumenico Vaticano II in tanti punti si ispira alla teologia dei padri Greci, riprende la prospettiva antropologica cristocentrica e la concezione della chiamata dell’uomo a partecipare e condividere l’esistenza di Dio in Cristo. Il Concilio è stato perciò il luogo in cui i due polmoni hanno cominciato a sintonizzarsi. Oggi, consapevoli di ciò che ci unisce, andrebbero riprese con maggiore decisione le sollecitazioni avviate dal Concilio.
— Qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’esperienza ortodossa?
In passato si è molto insistito sul maggior carattere pneumatocentrico della tradizione ortodossa rispetto alla Chiesa latina.
In parte è vero, ma nell’Oriente lo Spirito non è mai visto indipendentemente dal Cristo e dalla vita trinitaria.
Lo Spirito ha un ruolo centrale perché tutto è dovuto alla sua azione.
L’azione dello Spirito è di “cristificare” il mondo e l’uomo, cioè di portare alla partecipazione della vita divina l’uomo e il cosmo.
Lo Spirito è chiamato a trasformare l’uomo in modo da diventare sempre più intimamente simile, come struttura, come modo di pensare e di agire, al Cristo Signore.
Praticamente, “vivere in Cristo” secondo l’indicazione di San Paolo.
Gli ortodossi insistono che non si tratta di aggiungere virtù a virtù, ma di esistere in un certo modo, cioè acquisire l’esistenza conforme all’esistenza stessa di Dio.
Lo Spirito chiede a me come persona di entrare in un rapporto di comunione interiore sempre maggiore con il Cristo.
— Nei “Racconti di un pellegrino russo” si parla della preghiera del cuore con l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me peccatore”. In questo quadro, che significato ha questa preghiera?
La “preghiera continua” è l’elemento fondamentale che esprime più adeguatamente la prospettiva spirituale dell’Ortodossia.
Nella preghiera di Gesù vi è il riconoscimento della gloria divina, che si fa carne in Cristo e che arriva a noi attraverso la figliolanza divina di Cristo.
Vi è poi la consapevolezza del nostro peccato, della nostra povertà, del nostro non avere nessun diritto da vantare nei confronti di Dio.
Noi siamo caratterizzati dalla nostra ingiustizia, siamo peccatori…
Però fra il Signore e noi c’è il ponte, cioè la misericordia.
Il Cristo, nella prospettiva orientale, non è una presenza lontana.
In forza del battesimo noi siamo viventi in Cristo e Cristo è in noi.
Possono sembrare riflessioni astratte; in realtà questa preghiera manifesta la sua forza quando l’orante concretamente vive.
— Dall’incontro a Cuba a febbraio tra Francesco e il patriarca di Mosca Kirill alla visite a Lesbo e in Armenia: come vive la Chiesa ortodossa queste aperture al dialogo?
Ogni incontro andrebbe visto separatamente.
La Chiesa ortodossa non è come la Chiesa cattolica, ma è una comunione di Chiese nazionali autocefale.
Non ha al suo interno una figura dotata di autorità come il Romano Pontefice.
Il Patriarca di Costantinopoli ha un primato d’onore che vorrebbe estendere maggiormente o comunque vedere più riconosciuto, ma non può parlare a nome dell’Ortodossia se non ha il consenso delle altre Chiese.
A Cuba papa Francesco e Kirill hanno compiuto un passo importante.
Il Patriarca ha riconosciuto l’esistenza delle chiese greco-cattoliche.
L’incontro di Lesbo, invece, ha colpito molto ortodossi greci, ma non bisogna da qui trarre conclusioni universali per l’Ortodossia, ogni volta le cose vanno viste nel loro proprio contesto. Anche riguardo al Conclio pan-ortodosso, il cammino non è stato facile.
Se ne parlava dagli inizi del ‘900, poi la cosa si bloccò anche per la fine del socialismo reale nei Paesi del blocco sovietico.
Alla fine il Patriarca di Costantinopoli ha accelerato e il Concilio si è messo in moto. è però sufficiente che una piccola Chiesa come Cipro, che conta 300mila fedeli, blocchi un documento, che quest’ultimo non avrà valenza per tutta l’Ortodossia.
Il Concilio vuole mostrare in primo luogo agli ortodossi stessi che le Chiese ortodosse sono un’unica Chiesa.
— Qual è invece la forza di avere un’unica autorità come il Papa nella Chiesa cattolica?
C’è un teologo e filosofo greco giovane, l’archimandrita Giovanni Panteleimon Manussakis, che sostiene che l'Ortodossia ha bisogno di più elementi simili a quelli del Papato e che la Chiesa cattolica, nel vedere il Papato, avrebbe bisogno di più elementi simili a quelli dell’Ortodossia.
La Chiesa ortodossa dovrebbe cioè darsi più strumenti per vivere l’unità, ma senza l’investimento teologico che la Chiesa cattolica dà al Papato.
Dall’altra parte, il Papato avrebbe bisogno di dare maggiore spazio alla sinodalità e all’autonomia delle Chiese locali, articolando meglio, secondo lui, l’unità e la diversità.
Davide Maloberti
Riccardo Tonna
da Il Nuovo Giornale 1/07/2016
Stiamo parlando del mondo ortodosso, che a Creta a fine giugno ha vissuto il suo primo Concilio.
Ne parliamo con don Basilio Petrà, sacerdote di Prato, intervenuto nelle scorse settimane al convegno nazionale dal SAE al Centro pastorale Bellotta di Pontenure.
— Don Basilio, la Chiesa respira con due polmoni, l’Oriente e l’Occidente. Lei, che è nato da genitori ortodossi, come vede tutto questo?
Penso che bisognerebbe essere più consapevoli del fatto di avere più polmoni. Anzi, a dire il vero non sono soltanto due. C’è anche il polmone siriaco, una tradizione da non dimenticare. Un teologo dovrebbe prendere atto di questa molteplicità di presenze e di espressioni della Chiesa. Occorre, in altre parole, un’ampiezza cattolica reale del pensare e del sentire.
— Quali sono le caratteristiche principali del polmone orientale?
L’Oriente greco è segnato dalla percezione dell’esistenza umana chiamata alla divinizzazione. L’uomo è stato creato per diventare partecipe della natura divina condividendo l’esistenza di Dio in un disegno di comunione vitale. Nell’Oriente si avverte con forza che la Chiesa si colloca all’interno di una tradizione vivente con cui va mantenuto un legame costante. Tutto ciò non si oppone all’apertura alla novità e alle nuove necessità. Il Concilio ecumenico Vaticano II in tanti punti si ispira alla teologia dei padri Greci, riprende la prospettiva antropologica cristocentrica e la concezione della chiamata dell’uomo a partecipare e condividere l’esistenza di Dio in Cristo. Il Concilio è stato perciò il luogo in cui i due polmoni hanno cominciato a sintonizzarsi. Oggi, consapevoli di ciò che ci unisce, andrebbero riprese con maggiore decisione le sollecitazioni avviate dal Concilio.
— Qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’esperienza ortodossa?
In passato si è molto insistito sul maggior carattere pneumatocentrico della tradizione ortodossa rispetto alla Chiesa latina.
In parte è vero, ma nell’Oriente lo Spirito non è mai visto indipendentemente dal Cristo e dalla vita trinitaria.
Lo Spirito ha un ruolo centrale perché tutto è dovuto alla sua azione.
L’azione dello Spirito è di “cristificare” il mondo e l’uomo, cioè di portare alla partecipazione della vita divina l’uomo e il cosmo.
Lo Spirito è chiamato a trasformare l’uomo in modo da diventare sempre più intimamente simile, come struttura, come modo di pensare e di agire, al Cristo Signore.
Praticamente, “vivere in Cristo” secondo l’indicazione di San Paolo.
Gli ortodossi insistono che non si tratta di aggiungere virtù a virtù, ma di esistere in un certo modo, cioè acquisire l’esistenza conforme all’esistenza stessa di Dio.
Lo Spirito chiede a me come persona di entrare in un rapporto di comunione interiore sempre maggiore con il Cristo.
— Nei “Racconti di un pellegrino russo” si parla della preghiera del cuore con l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me peccatore”. In questo quadro, che significato ha questa preghiera?
La “preghiera continua” è l’elemento fondamentale che esprime più adeguatamente la prospettiva spirituale dell’Ortodossia.
Nella preghiera di Gesù vi è il riconoscimento della gloria divina, che si fa carne in Cristo e che arriva a noi attraverso la figliolanza divina di Cristo.
Vi è poi la consapevolezza del nostro peccato, della nostra povertà, del nostro non avere nessun diritto da vantare nei confronti di Dio.
Noi siamo caratterizzati dalla nostra ingiustizia, siamo peccatori…
Però fra il Signore e noi c’è il ponte, cioè la misericordia.
Il Cristo, nella prospettiva orientale, non è una presenza lontana.
In forza del battesimo noi siamo viventi in Cristo e Cristo è in noi.
Possono sembrare riflessioni astratte; in realtà questa preghiera manifesta la sua forza quando l’orante concretamente vive.
— Dall’incontro a Cuba a febbraio tra Francesco e il patriarca di Mosca Kirill alla visite a Lesbo e in Armenia: come vive la Chiesa ortodossa queste aperture al dialogo?
Ogni incontro andrebbe visto separatamente.
La Chiesa ortodossa non è come la Chiesa cattolica, ma è una comunione di Chiese nazionali autocefale.
Non ha al suo interno una figura dotata di autorità come il Romano Pontefice.
Il Patriarca di Costantinopoli ha un primato d’onore che vorrebbe estendere maggiormente o comunque vedere più riconosciuto, ma non può parlare a nome dell’Ortodossia se non ha il consenso delle altre Chiese.
A Cuba papa Francesco e Kirill hanno compiuto un passo importante.
Il Patriarca ha riconosciuto l’esistenza delle chiese greco-cattoliche.
L’incontro di Lesbo, invece, ha colpito molto ortodossi greci, ma non bisogna da qui trarre conclusioni universali per l’Ortodossia, ogni volta le cose vanno viste nel loro proprio contesto. Anche riguardo al Conclio pan-ortodosso, il cammino non è stato facile.
Se ne parlava dagli inizi del ‘900, poi la cosa si bloccò anche per la fine del socialismo reale nei Paesi del blocco sovietico.
Alla fine il Patriarca di Costantinopoli ha accelerato e il Concilio si è messo in moto. è però sufficiente che una piccola Chiesa come Cipro, che conta 300mila fedeli, blocchi un documento, che quest’ultimo non avrà valenza per tutta l’Ortodossia.
Il Concilio vuole mostrare in primo luogo agli ortodossi stessi che le Chiese ortodosse sono un’unica Chiesa.
— Qual è invece la forza di avere un’unica autorità come il Papa nella Chiesa cattolica?
C’è un teologo e filosofo greco giovane, l’archimandrita Giovanni Panteleimon Manussakis, che sostiene che l'Ortodossia ha bisogno di più elementi simili a quelli del Papato e che la Chiesa cattolica, nel vedere il Papato, avrebbe bisogno di più elementi simili a quelli dell’Ortodossia.
La Chiesa ortodossa dovrebbe cioè darsi più strumenti per vivere l’unità, ma senza l’investimento teologico che la Chiesa cattolica dà al Papato.
Dall’altra parte, il Papato avrebbe bisogno di dare maggiore spazio alla sinodalità e all’autonomia delle Chiese locali, articolando meglio, secondo lui, l’unità e la diversità.
Davide Maloberti
Riccardo Tonna
da Il Nuovo Giornale 1/07/2016
domenica 3 luglio 2016
SCRIVERE E' MAGIA
HURRICANE Il grido dell'innocenza è un film suggestivo con una eccellente performance di Denzel Washington nella parte del protagonista
Rubin Hurricane Carter.
Rubin Carter, noto anche con il soprannome Hurricane (1937-2014), è stato un pugile statunitense naturalizzato canadese,
Rubin Hurricane Carter.
Rubin Carter, noto anche con il soprannome Hurricane (1937-2014), è stato un pugile statunitense naturalizzato canadese,
La sua carriera di pugile si è svolta tra il 1961 e il 1966,
ma Carter deve parte della sua notorietà all'essere stato accusato di un
triplice omicidio, avvenuto il 17 giugno 1966 a Paterson, nel New Jersey:
sottoposto a processo, fu condannato a due ergastoli ma fu scarcerato nel 1985,
quando l'accusa rinunciò a muovere in giudizio una terza volta contro
l'illegittimità processuale sollevata dalla Corte Federale sulla base di un
possibile
pregiudizio razziale subito da Rubin durante l'incriminazione.
La sua storia ha ispirato un film, Hurricane - Il grido dell'innocenza, della cui colonna sonora fa parte una celebre canzone di Bob Dylan
Durante la sua detenzione, Carter scrisse dell'irregolare
vicenda giudiziaria subita in un libro che fece parlare e cantare personaggi di
spicco come Cassius Clay e il già citato Bob Dylan. pregiudizio razziale subito da Rubin durante l'incriminazione.
La sua storia ha ispirato un film, Hurricane - Il grido dell'innocenza, della cui colonna sonora fa parte una celebre canzone di Bob Dylan
Dopo 22 anni di reclusione il suo caso fu
riesaminato senza pregiudizi razziali e venne decretata la sua piena innocenza.
Al di là della ricostruzione romanzata della storia, però
fondata sulla vita di Carter, Denzel ci fa immedesimare nel personaggio tanto
da farci provare il passaggio da un'emozione all'altra, fino a tirare un
sospiro di sollievo alla lettura dell'ordinanza di scarcerazione.
Una piccola perla, a mio avviso, un capolavoro della sceneggiatura, è il
discorso di Rubin sulla scrittura.
Queste parole emergono dal dialogo in carcere tra Rubin e
Lesra, suo giovane amico e ammiratore.
"Scrivere è... è magia. Ti è capitato di
pensarlo?"
"Si, a volte si."
"Quando ho cominciato a scrivere, ho scoperto che non
stavo raccontando solo una storia. Scrivere è un'arma. Ed è un'arma più potente
di qualsiasi pugno. Ogni volta che mi sono messo a scrivere, mi sono levato
sopra le mura di questa prigione e il mio sguardo andava oltre, al di là dello
stato del New Jersey. Ho potuto vedere Nelson Mandela nella sua cella, che scriveva
il suo libro. Ho visto lui, ho visto Dostoevskij, ho visto Victor Hugo, Emile
Zola. E loro mi dicevano: Ru', che fai lì dentro? E io: ehi, io vi conosco
ragazzi! È magia, Les!"
Sono parole che sanno emozionare, che sanno cogliere il
valore della scrittura che ti può dare
la vera libertà, ti può portare dove
vuoi…
Con la scrittura puoi raggiungere migliaia di persone e
donare a tutti i tuoi pensieri, le tue suggestioni comunicando chi sei
veramente…
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